Dopo il grande successo ottenuto sulle pagine di Notizia Oggi Vercelli, e dopo l’eccezionale gradimento della prima puntata dedicata ad “Amici Miei”, ecco il secondo film capolavoro dell’anno di grazia 1975: Profondo Rosso, capolavoro indiscusso del genere thriller italiano. A firmarlo all’epoca il grandissimo Dario Argento. A rileggerlo per voi, cari lettori, due editorialisti di eccellenza del nostro settimanale, Giulio Dogliotti e Guido Michelone.
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Anno 1970, nelle sale cinematografiche esce “L’uccello dalle piume di cristallo”, thriller scritto e diretto da un trentenne Dario Argento, alla prima come regista. La pellicola vanta interpreti del calibro di Enrico Maria Salerno, Tony Musante e la musica di Ennio Morricone. Un anno dopo arrivano in rapida serie “Il gatto e nove code” e “Quattro mosche di velluto grigio”, due titoli suggestivi che chiudono la trilogia degli animali e che, come il primo, entrano dritti nell’immaginario collettivo facendo meritare al regista romano la patente di “Alfred Hitchcock italiano”. Per i critici dell’epoca, lo stile argentiano è un “Sasso nello stagno” e la sua ossessione per i dettagli, la fotografia, i rumori spesso amplificati e le musiche allucinanti diventano ben presto marchio di fabbrica e firma di un grande, grandissimo artista. Dopo una pausa piuttosto lunga in cui Argento firma il film storico “Le cinque giornate”, unica parentesi in cui si allontana dal filone giallo-thriller-horror in carriera, ecco arrivare il capolavoro assoluto: “Profondo Rosso”, è l’anno 1975 e con questa pellicola Dario Argento riscrive le regole del thriller.
Il film doveva intitolarsi “La tigre dai denti a sciabola” in continuità con i precedenti, ma alla fine Argento scelse l’iconico titolo Profondo Rosso.
Dogliotti: una storia ancora oggi molto intrigante
Quando vidi per la prima volta il film ero già stato vaccinato da ragazzino con “Psycho” di Hitchcock e da un tosto richiamo nel 1974 con “L’Esorcista” di Friedkin. Comunque ricordavo che la pellicola mi aveva colpito fin dall’inizio, con la musica inquietante e ipnotica di Giorgio Gaslini nei titoli di testa, eseguita dai Goblin. E poi il prologo con un assassinio a coltellate, mostrato come ombra su una parete, con il contrasto di una nenia infantile. C’era un coltellaccio da cucina sporco di sangue che finiva la sua opera cadendo in primo piano accanto ai piedi di un bambino, del quale si vedevano solo le scarpine di vernice nera e i calzettoni bianchi: la cosa creava un’intensità di scena di straordinaria forza. Dall’opera mi aspettavo molto, e per il battage pubblicitario dedicato a Dario Argento che aveva già diretto alcuni film di successo e “de paura”, e per il cast davvero importante ed eterogeneo che annoverava attori di teatro come Glauco Mauri, Eros Pagni e Gabriele Lavia. E poi per il cinema c’era David Hemmings, che avevo visto in “Blow Up” di Antonioni, Daria Nicolodi che sarebbe diventata compagna di Argento e mamma di Asia, e una curiosa presenza di Clara Calamai, interprete da telefoni bianchi, che conoscevo per la sua ben nota partecipazione nel film “La cena delle beffe” in cui, per una frazione di secondo, aveva mostrato il seno nudo, scandalizzando ufficialmente i benpensanti anteguerra.

DARIO ARGENTO NEL CARATTERISTICO CORRIDOIO-GALLERIA CHE APPARE NEL FILM
Nei miei ricordi “Profondo rosso” era un’opera più thriller e giallo che horror, anche perché in seguito avremmo avuto un’escalation di ammazzamenti con grande dispendio grandguignolesco di sciroppo rosso, ora sostituito dagli effetti computerizzati.
Rivisto oggi devo dire che in quanto a suspence i suoi cinquant’anni li dimostra tutti ma la storia è sempre intrigante. Enorme valore aggiunto sono alcune particolarità che non invecchiano mai, anzi! Per esempio i quadri della casa del primo delitto, con personaggi dai volti scavati e spettrali, tipici delle opere di Enrico Colombotto Rosso (certi blog glieli attribuiscono), che pare siano solo un’imitazione degli originali, in quanto il Colombotto a un certo punto aveva dato forfait. La produzione aveva quindi ingaggiato il pittore Francesco Bartoli che era stato fortemente influenzato dai lavori del suo predecessore.
A Vercelli la Galleria Tacchini aveva curato una mostra del pittore visionario e l’editore d’arte Giorgio Tacchini aveva pubblicato un elegante libro con i testi e i disegni dell’artista dal titolo ”Storie di maghe per adulti”. Altra chicca del lungometraggio è l’ambientazione di una parte determinante del racconto girata a Villa Scott di Torino dove Mark scopre il disegno dell’assassino grattando via una parte d’intonaco e, in seguito, il cadavere mummificato dell’uomo assassinato per primo nella storia. Villa Scott è un magnifico esempio di Liberty torinese; è situata nella zona precollinare della città, ma nel film viene ubicata nella campagna romana. Di Torino ricordavo anche le due grandi statue di piazza C.L.N. due fontane, impiegate magistralmente in più di una scena, che raffigurano in allegoria il Po e La Dora Baltea, l’uno come un uomo barbuto e l’altra una donna a seno scoperto, entrambi sdraiati con le acque che scorrono sotto di loro.
Per concludere vorrei ricordare due particolari non sanguinolenti che mi ricordavo fin dalla mia prima visione: quello in cui David Hemmings sente dei rumori sospetti mentre sta suonando il piano e continua a suonarlo con una mano sola, brandendo con l’altra una pesante statuetta, per difendersi dall’eventuale assassino che potrebbe aggredirlo. L’altro è l’uso assai indovinato delle bambole impiccate e decapitate, che farà scuola alla grande in molti film horror degli anni successivi.
Giulio Dogliotti

CLARA CALAMAI SUL SET (foto Franco Bellomo)
Michelone: quella volta con Dario Argento al Torino Film Festival…
Prima di raccontare il ‘mio’ Profondo rosso, vorrei ricordare il mio unico incontro dal ‘sapore vercellese’ con il regista Dario Argento, nel lontano 2001, al Torino Film Festival, dove si presentava la nuova edizione in DVD del film di Giuseppe De Santis Riso amaro (1949), comprendente tra gli extra una mia lunga intervista dove spiegavo la genesi e le riprese del lungometraggio, girato perlopiù in risaia fra Rive, Venaria e Vercelli.
Mentre presentavo il DVD mi accorsi che, fra il pubblico, c’erano almeno tre cineasti importantissimi: il duo Daniele Ciprì e Franco Maresco (allora celebre per Cinico TV) e appunto Argento. Chiesi dapprima a Franco cosa amasse di Riso amaro ed egli, fedele alla propria poetica, disse di ammirare il tocco espressionista nelle scene più drammatiche, oltre la scultorea bellezza della protagonista Silvana Mangano.
Dario, da parte sua, rispose che ciò che lo impressionò maggiormente, quando vide la pellicola da ragazzino, fu la sequenza conclusiva, dove il bandito (Vittorio Gassman) fa una brutta fine, molto truculenta, quasi ad anticipare lo “stile Argento”, tant’è che alcuni censori della RAI tentarono di oscurare la scena durante la prima TV nel 1970.
Detto questo il nome di Argento mi fu familiare proprio attorno al 1970, o per meglio dire tra il ‘70 e ‘73, quando il regista con soli quattro film conquista le simpatie del pubblico e la stima anche di noi liceali, in gruppo il sabato pomeriggio al Viotti o al Verdi a vedere “L’uccello dalle piume di cristallo”, “Il gatto a nove code”, “Quattro mosche di velluto grigio” e “Le cinque giornate” (quest’ultimo sul Risorgimento milanese); e ci interrogavamo se Dario fosse l’erede del grande Alfred Hitchcock, maestro del giallo: oggi diremmo del noir, poliziesco o thriller.

Iniziavo già sul giornalino H Stoa (Il Portico) la mia ‘carriera’ di critico cinematografico a ‘mezzo servizio’, ormai da un quarto diradatasi per far posto al jazz e al rock, già comunque presenti fin dall’inizio: i miei primi due articoli infatti furono le recensioni del film Roma di Federico Fellini e di un triplo Best del chitarrista Jimi Hendrix.
Ma, nel 1975, lo stupore davanti a Profondo rosso fu immenso: Dario era passato dal giallo all’horror che tra l’altro rimase la cifra stilistica definitiva dei successivi 15 lavori da Suspiria (1977) a Occhiali neri (2022), con tanti capolavori in mezzo, tra Phenomena e La sindrome di Stendhal, per citare i miei preferiti. Profondo rosso si fa ancora oggi apprezzare per i motivi indicati dall’amico Giulio Dogliotti, il quale, da attore e commediografo, cogliendo al volo i segni vincenti: drammaturgia, recitazione, scenografie, dettagli. Io personalmente, occupandomi ora di musiche (colonne sonore comprese), vorrei sottolineare l’estrema importanza (rilevata da tutti i critici a livello internazionale) che riveste il commento musicale, affidato a un gruppo rock italiano allora sconosciuto, i Goblin, dove però militava un figlio d’arte, Claudio Simonetti, alle tastiere, con il papà Enrico pianista e intrattenitore sul piccolo schermo.
Tra l’altro, oggi, pochi ricordano che Dario avrebbe voluto i Pink Floyd a suonare, ma la grande band inglese gentilmente declinò l’invito, non per spocchia, ma in quanto impegnata a completare un certo Wish You Were Here ovvero uno degli album più venduti di tutta la storia della musica nonché uno dei migliori LP rock in assoluto; a posteriori sia David Gilmour sia Roger Waters manifestarono un certo rammarico per la mancata partecipazione a un film-capolavoro (cinque anni prima aderirono a Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni, altro film-cult), pur elogiando quanto fatto dai colleghi italiani definibili senz’altro progressive o prog-rock.
Nella colonna originale vennero altresì inseriti brani jazz scritti ed eseguiti dell’insigne Giorgio Gaslini, in modo che l’intero ‘score’ o ‘soundtrack’ dai tocchi martellanti, lugubri, intensi, evocativi, rispecchiasse perfettamente lo stato angoscioso di un fantasmagorico Profondo rosso, diventato quasi subito un’autentica pietra miliare di tutta la cinematografia italiana (e non solo).
Guido Michelone