Aggressione di Rieti – un commento vercellese: “Homo ludens, Homo ferox”

Riflessioni di Marco Mattiuzzi sul "tifo", la violenza e la deriva irresponsabile dei nostri tempi

Aggressione di Rieti – un commento vercellese: “Homo ludens, Homo ferox”

Riceviamo e volentieri pubblichiamo delle riflessioni di Marco Mattiuzzi, artista, scrittore e intellettuale vercellese, sull’assurda morte dell’autista colpito nell’agguato al pullman dei tifosi pesaresi avvenuto a Rieti. Un’azione vile e criminale, che nulla ha a che fare con tifo, specialmente in uno sport come il basket.

Un uomo per bene che non tornerà a casa

C’è un mattone che ha tagliato la notte italiana con un colpo secco, spezzando una vita e la misura delle cose. L’uomo che non tornerà a casa era un autista, non un gladiatore d’arena. Non era “curva”, non era “opposta fazione”: era un lavoratore che riportava a casa dei tifosi dopo una partita di basket. Eppure, nel nostro lessico avariato, questo delitto verrà presto declinato al condizionale del caso isolato, al passivo del “si è scatenata una rissa”, come se la violenza fosse un fenomeno atmosferico e non un gesto umano, preparato, cercato, compiuto.

Il “tifo” pretesto per i violenti

Da anni accettiamo che piccoli eserciti in abiti civili usino il tifo come costume di scena. Hanno i loro codici, i loro segnali, le loro strategie. Non sono “passioni sportive”; sono bande che sfruttano lo sport come paravento. E noi, che pure sappiamo distinguere un gioco da una guerra, ci lasciamo sedurre da una retorica rumorosa — “battaglie”, “assalti”, “trasferte di fuoco” — che scambia l’agonismo per ferocia e la competizione per rissa. È il trionfo del folklore tossico: il nemico immaginario rende tutto più vendibile, più cliccabile, più caldo. Ma il calore, quando brucia, non scalda: consuma.

Mettersi alla prova senza distruggersi

Huizinga, in Homo ludens, ci ricorda che il gioco è il luogo dove la cultura si mette alla prova senza distruggersi. È una parentesi solenne in cui si accetta una regola per poter essere liberi. Noi abbiamo rovesciato la parentesi: la stiamo usando per far colare la barbarie nel centro della città. E poi ci stupiamo del risultato, come se fosse un guasto imprevedibile del destino e non la conseguenza meccanica di scelte, omissioni, indulgenze.

C’è chi dice: “Capiscono solo la forza.” È una frase brutta, ma contiene un nucleo di verità che va ripulito: non la forza cieca, bensì la forza legittima. Weber la chiamava “monopolio legittimo della forza”: non per dominare, ma per proteggere il patto civile. Mettere davvero in condizione le forze dell’ordine di intervenire significa preparazione, intelligence, interdizione preventiva dei gruppi violenti, riconoscimento preciso dei responsabili, procedure d’ingaggio chiare e tempestive. Non la scenografia dei lampeggianti dopo, ma l’efficacia del lavoro prima.

Chi organizza agguati non è un “caldo” di curva: è un delinquente. A costoro, pene immediate e certe, e un Daspo che non sia elastico come una scusa: interdizioni estese ai luoghi e ai tempi dello sport, obblighi di firma, responsabilità pecuniarie per chi finanzia e copre.

Quelle parole pericolose

Non basta, però, la polizia, se il racconto continua a travestire il sangue con parole da telecronaca. Un piccolo voto laico al linguaggio: basta titoli-baldacchino che trasformano ogni partita in un torneo all’ultimo sangue. Le parole preparano le azioni; la frase “nemico storico” legittima, goccia dopo goccia, il salto di specie dalla metafora al colpo reale.

E nello sport giovanile non è meglio…

E poi c’è l’onda lunga, la più amara: i campi dei bambini. Qui il teatro si fa grottesco. Genitori che scavalcano reti per offendere arbitri adolescenti, adulti che trasformano un sabato pomeriggio in un tribunale della propria biografia mancata. Non è il trionfo del figlio: è la rivincita narcisistica dell’adulto proiettata su un corpo giovane. Il messaggio, disgraziatamente chiaro, è questo: “Conta vincere, a qualunque costo; la tua dignità è negoziabile.” E quando il ragazzo — chiamiamolo pure “persona in crescita” – impara, non impara lo sport: apprende la grammatica del branco.

Che fare per prevenire

Le società e le Leghe non possono restare in platea. Servono corridoi protetti non solo dentro i palasport, ma fuori, fino agli imbocchi delle città; trasferte sospese per chi ha prodotto violenza organizzata; riammissione condizionata a piani di controllo verificati e a cauzioni serie. Nei vivai, un “Codice Genitori” vincolante: formazione minima, firma consapevole, espulsione immediata dai recinti di gioco per chi insulta o minaccia, squalifiche esemplari per le squadre i cui adulti aggrediscono arbitri o avversari. Non è severità punitiva: è igiene civile.
Qualcuno, a questo punto, obietterà che così si rischia di “militarizzare lo sport”. È un argomento elegante sulla carta e pericoloso nella realtà. La libertà non è l’assenza di regole: è l’esistenza di regole che proteggono tutti. Il paradosso è antico: per poter giocare bisogna tracciare i confini del campo; senza confini non c’è gioco, c’è caos. E il caos, quando prende forma, non ha la poesia dei romantici: ha il volto banale della cattiveria.

Non abbiamo bisogno di eroi ma di adulti

Resta il nome dell’autista. Pronunciarlo – senza enfasi, senza trombe — è un atto dovuto. In letteratura si direbbe: un personaggio minore che regge il senso dell’opera. In realtà si chiama responsabilità. Se lo sport vuole tornare a essere una festa – e non la scusa per l’ennesimo rito tribale – occorre una conversione di sguardo: dalla pornografia del conflitto alla sobrietà della competizione; dalla curva come falange alla comunità che si riconosce in un gioco; dalla furbizia del “tanto succede” alla serietà del “non succederà più se possiamo impedirlo”.

Non abbiamo bisogno di eroi, ma di adulti. Di istituzioni che esercitino la forza giusta, di dirigenti che scelgano lo scomodo, di giornalisti che depongano le metafore di guerra, di genitori che capiscano che educare non è vincere per procura. Altrimenti quel mattone — proiettile rozzo, sillaba senza grammatica — resterà la nostra lingua madre.
La civiltà non si misura dal numero dei trofei, ma da come sappiamo perdere e da come sappiamo proteggere chi lavora perché gli altri possano tornare a casa. O torniamo Homo ludens, o ammettiamo, con un brivido, di essere scivolati in Homo ferox. E allora lo sport, più che una festa, resterà un pretesto: l’alibi di una società che ha paura della propria forza e, per questo, la consegna ai violenti.

Marco Mattiuzzi