Nel mondo

SE DUE VITE VALGONO MENO DI UNA...

Tutto il mondo protesta per l'assassinio di Floyd ma non alza un dito per due bimbi trucidati in Kenya e Pakistan

SE DUE VITE VALGONO MENO DI UNA...
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Pubblichiamo una riflessione del nostro direttore Daniele Gandolfi sul tema dell'assassinio di George Floyd e di come talvolta le manifestazioni di solidarietà nascondano profonde incongruenze...

Minneapolis. Minnesota. Stati Uniti d’America. George Floyd, un afroamericano di 46 anni viene immobilizzato faccia a terra da un poliziotto che gli tiene per quasi nove minuti il ginocchio sul collo e muore per arresto cardiaco causato dalla pressione esercitata. Nei suoi ultimi minuti di esistenza, la povera vittima ripeteva «I can’t breathe», ovvero «non riesco a respirare» . Ma nessuno dei quattro agenti che lo circondavano ha avuto pietà di lui. L’aguzzino è finito in carcere conl’accusa di omicidio volontario e il mondo si è rivoltato contro gli Usa e il sovente dispotico modo di agire delle loro forze dell’ordine. La drammatica morte di Floyd ha infatti riportato d’attualità un fenomeno che rappresenta una delle“principali cause di morte”per i giovani americani, soprattutto tra quelli di colore. Secondo uno studio del Proceedings of the National Academy of Science of the United States of America, periodico ufficiale della National Academy of Sciences (NAS), essere uccisi durante un arresto da parte di un agente di polizia rappresenta in Nord America la sesta causa di morte per gli uomini di età compresa tra i 25 e i 29 anni appartenenti a qualsiasi gruppo etnico(1,8 decessi per 100mila persone). Ma rispetto ai bianchi, gli uomini afroamericani sono 2,5 volte più a rischio. Nei giorni successivi al fatto di Minneapolis ci sono state altre uccisioni di afroamericani causate dalla polizia. Fatti che hanno sollevato l’indignazione globale. Dallo spettacolo allo sport, dalla politica alle associazioni, fino alla gente comune tutti hanno manifestato e continuano a manifestare contro l’allucinante episodio il cui tremendo filmato ha colonizzato i social network dopo essere stato trasmesso da tutte le tv del pianeta. La protesta che chiede giustizia è presto diventata globale, senza distinzioni di sesso o orientamento sessuale, senza distinzioni di colore della pelle. A Washington DC i manifestanti hanno assaltato la Casa Bianca e il controverso Donald Trump non ha trovato niente di meglio da fare che rifugiarsi nel suo bunker dorato da dove se l’è presa con la folla che chiedeva rispetto. Per manifestare la sacrosanta solidarietà a George Floyd la gente ha simbolicamente ripetuto il gesto che gli ha portato via la vita inginocchiandosi nelle pubbliche piazze per poi applaudire e gridare con tutta la forza «I can’t breathe». L’abbiamo visto fare anche nel mondo del calcio con i giocatori di Borussia Dortmund ed Hertha Berlino in ginocchio sul cerchio di centrocampo prima di cominciare la loro partita del campionato tedesco. L’indignazione popolare ha come sempre un’altra faccia, quella dei facinorosi violenti. Li conosciamo bene anche da noi con il nome diBlack Blocks: vigliacchi incappucciati che approfittando di manifestazioni pacifiste distruggono tutto contando sul fatto che, nascondendo le loro facce, magari non vengono «beccati». Teppaglia allo stato brado e potenziali assassini. Se Chicago piange due morti, New York fa i conti contro vandalismo e saccheggi con 345 arresti e 33 feriti.Qualcuno ha pure trovato il modo di aggredire i giornalisti per tacere di quel suv che ha volontariamente travolto un gruppo di agenti in assetto antisommossa a Buffalo. La protesta arriva naturalmente anche in Italia con migliaia di manifestanti a Milano e in altre città. Sabato scorso, il movimento «Black lives matter» (La vita dei neri conta) ha occupato pacificamente piazza Cavour per chiedere giustizia e uguaglianza sociale. La vicenda Floyd ha toccato la sensibilità della Terra intera ma ha acceso nuovamente i riflettori sulle incongruenze che esistono anche nel mondo della solidarietà e delle campagne a difesa dei diritti civili. Mi spiego meglio. Abbiamo visto migliaia, forse milioni di persone inginocchiarsi in memoria di Floyd. Non abbiamo visto nessuno farlo per Yassin Hussein Moyo. Come non abbiamo visto nessuno farlo per Zohra Shah... Yassin era un ragazzino di 13 anni di Nairobi, capitale del Kenya. L’hanno ucciso il 30 marzo con un colpo di arma da fuoco mentre era sul balcone al terzo piano di una casa nella baraccopoli di Kariokor. Era con la mamma e stava osservando la polizia che, manganelli alla mano, stava picchiando coloro che si rifiutavano di rispettare il coprifuoco per l’emergenza Coronavirus. Secondo la ricostruzione della stampa kenyota, Yassin era salito in piedi su una sedia appoggiandosi alla ringhiera. La mamma gli disse di non preoccuparsi perché la polizia non avrebbe sparato verso la loro casa perché loro non stavano facendo nulla di sbagliato. «Invece un ufficiale ha puntato la sua torcia verso di noi dopodiché Yassin mi ha detto che era stato colpito. Io pensavo che scherzasse come suo solito». La polizia avrebbe spiegato che il bimbo è stato ucciso da un colpo di rimbalzo ma l’episodio, gravissimo, va ad aggiungersi ai 15 documentati da Amnesty International sulle persone uccise dalle forze di polizia durante il coprifuoco. Zohra Shah lavorava come domestica nella casa di ricchi a Rawalpindi in Pakistan. I suoi datori di lavoro l’hanno picchiata e torturata fino alla morte perché aveva liberato due pappagallini chiusi in gabbia. Per chi non lo sapesse, Zohra aveva solo otto anni! Otto anni, una bambina ancora piccola che quattro mesi prima aveva lasciato la città natale di Kot Addu,nella provincia del Punjab, dove viveva in povertà con la sua famiglia. I suoi carnefici l’avevano assunta perché si prendesse cura del loro bambino promettendole di farla studiare. Dopo averla malmenata ferendola al volto, alle mani, al torace e alle gambe, l’hanno abbandonata in un ospedale dove i medici hanno lottato per salvarle la vita. Dai social è partita forte la richiesta di giustizia per la bambina ma il problema è ben più radicato visto che in Pakistan l’occupazione minorile è ancora illegale nelle fabbriche ma evidentemente non nelle case private. Il governo locale ha promesso la modifica delle leggi sul lavoro domestico ma l’idea che una bambina di otto anni debba lavorare per garantirsi gli studi fa pensare a un’arretratezza sociale intollerabile dal punto di vista dei diritti umani. E allora, voi che manifestate nelle piazze gridando slogan e mostrando bandiere arcobaleno, ricordatevi anche di queste due anime innocenti strappate alla vita in circostanze inaccettabili. La lotta per i diritti civili non ha sfumature di colore, a maggior ragione se il colore è quello della pelle.

DANIELE GANDOLFI

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